Tra la Via Emilia e il Circolo Polare

Certe notti per dormire mi metto a leggere e invece avrei bisogno di attimi di silenzio.

Momenti circondati di quiete che ci portano a guardare le risonanze del nostro tempo dentro di noi, che ci spingono ad abbandonare divani con telecomandi in mano, a vivere ad un’altra velocità e a fare cose seguendo un istinto naturale e razionale, lontano dalle leggi, dalle ossessioni, dalle certezze e dalle forze contrarie.

Cose come pedalare verso nord in una mattina di ottobre, quella ancora di colore blu scuro, con le ultime stelle che ti sorvegliano passare città a 40 km, a 70 km e a 100 km lungo la via Emilia. Una linea dritta, orizzontale, che ti tiene con i piedi per terra e che porta in dono i portici di Bologna e da cui ne scaturisce una verticale, infinita e senza destinazione.

Cose che possono essere più o meno semplici: avvenimenti, esperienze, letture ma che sono uniche, discrezionali e capaci di generare energia carica di sogni di gloria e ritrovate ambizioni, in grado di aggiustare, spostando più in là, il confine dei propri orizzonti e comprendere meglio se stessi e la propria essenza per staccarsi dalla sola ricerca di piccola gioie quotidiane e innalzare l’oggetto dei propri desideri.

Il mio maestro mi insegnò che a volte in questo transito terrestre quando l’ordine delle cose si fa incerto, quando abbiamo bisogno di difenderci, dobbiamo essere capaci di identificare pianeti di tranquillità in cui cercare rifugio dove tutto è equilibrio, bellezza, calma e voluttà.

Possiamo essere o diventare inestinguibili viandanti alla scoperta di nuovi spazi, paesi o regioni, per ritrovarsi e ritrovare la via del piacere che troppo spesso perdiamo di vista, per non avere coscienza solo di quella felicità che andiamo immaginando.

Il circolo polare artico è uno di quei luoghi che permettono di mettere a fuoco tanto l’obiettivo della macchina fotografica quanto quello del proprio sguardo interiore, di intuire che l’essere umano non è all’altezza di questo spazio siderale e di intendere che non siamo altro che viaggiatori anomali in terreni mistici.

Per quanto languidi i suoi soli di gennaio, quando hanno voglia di uscire, le nuvole non sono in grado di tener loro testa e si spostano per liberare i cieli annebbiati. In pochissimi istanti il palcoscenico è di quei raggi solari che abbracciano tutto ciò che c’è intorno. Le luci fredde evolvono rapidamente e prima di andarsene illuminano anche i pensieri neri, ne rapiscono l’oscurità che hanno dentro per ripulirli, liberarli, ridonandogli candore e nuova vita.

Navigare sui ghiacciai, superare la nebbia, affrontare i venti forti, immergersi nel mare del nord, respirare nell’aria pulita e volare in mezzo ai fiordi insieme a maestose aquile che disegnano traiettorie imprevedibili e il cui gioco di aperture alari è l’unico suono a spaccare il silenzio. Avvertire così assenza di tempo e spazio, tutto appare immobile ed eterno per ripartire dall’inconscio e dalla capacità di vivere il desiderio ed essere cittadini del mondo.

Luoghi in cui nessuno può raggiungerti, in cui le montagne nascono direttamente dalle onde, in cui non c’è niente da dire o da fare, solo da esistere, da lasciare che intorno tutto splenda per provare a scorgere l’infinito. Si formano così connessioni di pensiero che vanno a velocità irraggiungibile con i suoni naturali e atmosferici e l’ascolto di musiche di maestri i cui testi sono svelati in queste righe. Melodie che catturano le idee e che portano a trovare una congiunzione tra ciò che si ha di fronte a sé e ciò che si ha davanti nel proprio cammino per andare incontro anche alle prove più segnanti perché se nemmeno ci provi hai già fallito.

Non tutto è idilliaco, nulla può esserlo e allora si possono perdere traghetti, dormire in interporti, salire su aerei traballanti, cercare calore dentro locali di ghiaccio. Sono però tutte condizioni figlie di una caparbietà innata e quando è condivisa è facile comprendere che anche se qualcosa può andare storto il futuro è sempre lì a farci un sorriso.

E lassù mentre brillano quelle stesse stelle della Via Emilia sulle nostre teste, mentre ci interroghiamo, su che cos’è la giovinezza, o in fondo su cosa sarebbe dovuta essere, tra pensieri di aspirazioni e delusioni di vite precedenti, camminiamo su una collina ricoperta di bianco, sotto la neve che cade e inciampando sulle radici nascoste. Sono le undici, sono meno cinque gradi. Nessuno che passa, tutto che tace in una notte stupenda che sembra fatta di vento. Quel vento da cui è inutile ripararsi, che ci insegna come nei territori inabitati la natura piega l’uomo al suo volere. Quel vento che questa volta non vuole portare via con sé le nuvole, per lasciarle lì, per decidere che non è ancora tempo per noi di scorgere quelle esplosioni interstellari, quei corpi di luce su pianeti invisibili, quelle bande luminose di colori che si vedono di notte solo nel nord Europa e che sono lì dietro, forti, vivaci e frenetiche.

Rimaniamo così appoggiati alla notte spalancata sul mare

Con le uniche luci a guardarci quelle lontane delle finestre

Dovranno passare altri inverni

Per tornare a scrivere di questi luoghi incantati e fiabeschi

Dove per scaldarci non bastano le nostre mani

Dove anche le rondini si fermano il meno possibile

Dove tutto sembra indimenticabile

Pensiero debole che nasce dall’ascolto, dallo studio e dalla ricerca di nuove americhe e di nuovi viaggi da pianificare e da improvvisare. Per vivere ancora notti illuminate con persone speciali a cui vanno ringraziamenti altrettanto speciali per l’esperienza condivisa di momenti di vita incancellabili…e per quell’incredibile scatto degno di National Geographic.

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