LA MIA PRIMA A NEW YORK: memories by a millennial knickerbocker

Apro gli occhi e mi trovo a STATEN ISLAND, é il 3 Novembre 2019 e sono le ore 10.35. Dopo quattro ore di attesa, senza mangiare e senza bere, è finalmente giunto il momento dello sparo che sancisce la partenza della mia wawe di partecipanti. Sono consapevole che per le prossime altre quattro di ore sarò piuttosto impegnato, ci sono 42km195m, omonimi di 26.2 miglia, da percorrere.

Il ponte di Verrazzano che collega Staten Island a Brooklyn penso che ad oggi venga citato nella storia newyorkese più per essere la starting line della maratona, che per quanto realizzato dal povero esploratore Giovanni, che a suo tempo diede un discreto contributo alla nostra di storia.

In poco meno di due miglia dall’inizio del ponte inizia a sentirsi un qual certo boato provenire dal basso e, passata l’ultima curva dopo lo stesso, centinaia di persone festanti ed urlanti sollevano cartelli con scritto ‘WELCOME TO BROOKLYN’.

Mai avrei creduto che la mia prima volta in quel di Brooklyn sarebbe stata correndo. La seconda fu il giorno dopo per vedere Kyrie infilarne 39 ai Pellicani della Louisiana. 

L’accoglienza di questa gente rimarrà indimenticabile. Le sue strade, così come quelle di Harlem, gridano ancora più forte che mai, impossibile non sorridere o dare il cinque a chiunque ti si pari ai lati.

È lunga ed è tanta Brooklyn, ma la fatica non c’è, si corre e si va avanti a mente libera. 

Trascorrono le miglia, nei punti di ristoro organizzati lungo il percorso non vi è traccia di cibo. Solo sali minerali e acqua. Si beve tanto, si mangia il nulla, il corpo mi ordina per due volte nei primi 21 km di andare in bagno. Sono alla NYC Marathon, oltre a me ci sono altre 53.000 persone nella stessa posizione, la ricerca del bagno libero può durare anche 2-3-4 miglia e correre con la vescica piena non è il massimo. E con lo stomaco vuoto peraltro. Se non si può mangiare nei ristori organizzati, bisogna accettare, a scatola chiusa, quello che ti offrono le persone: cioccolata, frutta secca, banane, arance e, per un errore di valutazione, anche vaselina.

Siamo al 14esimo miglio e salutare Brooklyn è un colpo al cuore, ma lo scenario nel QUEENS rimane spronante, seppur breve: metà della sua durata è sotto il Queensboro Bridge, dove può transitare solo chi corre. Voltando lo sguardo sulla sinistra si possono scorgere gli enormi grattacieli della City: ‘vedere la città dal Queensboro Bridge è come vederla per la prima volta, con la sua sfrenata promessa di tutto il mistero e la bellezza del mondo’. Un impatto psicologico-nervoso davvero intenso: spazi più stretti, silenzio quasi totale, il rumore dei passi è tutto ciò che si può udire. Molti si fermano per continuare camminando. Riesco ad accodarmi alla versione runner di Batman&Robin che corrono per correre, sorpassano, creano traiettorie in cui infilarsi in mezzo al muro di gente e, last but not the least, incitano gli altri con cori semplici ma efficaci. Fino a che Robin cede per un crampo e vedo la mia entrata a MANHATTAN in solitaria senza i due supereroi. La First Avenue è incredibile, l’effetto visivo è letteralmente stupefacente: un lieve saliscendi di 3 miglia da dove scorgere la marea interminabile di persone tutte colorate che vi sono in avanti. Il contachilometri segna 30 e di lì a poco si arriva nel BRONX. Altra atmosfera, non è Manhattan. E’ un clima surreale, quasi avulso dal contesto della giornata. È molto forte e sopraggiunge anche a livello fisico, tanto da ricordarmi che ormai l’energia nelle gambe è al termine. La gente acclama l’ingresso nel quinto ed ultimo ponte, per uscire ad Harlem. Bang, altro schiaffo emotivo. Qui si respira la storia afro di New York e degli Stati Uniti, qui si è scritta la storia che conta.

Siamo al 22esimo miglio e la Fifth Avenue che fiancheggia Central Park sancisce l’inizio della passerella d’onore. Mi sorpassa un redivivo Robin, non so come sia stata possibile la sua ripresa fisica ma sono strafelice per lui. Lo saluto e lo lascio andare al suo ritmo martellante, ne ho ancora per poco. Si entra dentro il parco, sento urlare il nome che porto sulla maglia, questa volta non è uno spettatore random, cazzo lo vedo e lo riconosco: è il mio migliore amico con il suo fantastico Zio. Credo non mi siano uscite lacrime per la mancanza di liquidi nel corpo ma è come se le sentissi ed è stata la carica per tagliare il traguardo e portare a compimento una delle più belle esperienze della mia vita.

Per il cittadino americano la Maratona di New York non è solo una corsa, è una challenge. Vi prendono parte persone con problemi fisici e psicologici e spesso le due cose vanno a braccetto. Portarla a termine per loro è tutto ciò che conta in quella fase della loro vita, non importa in quanto tempo, se in 4, 5, 6 ore o più. È un sogno americano modernizzato, una iniezione spropositata di autostima. Lo stesso feeling lo avvertono gli spettatori, che anche a corsa ultimata, o nei giorni seguenti, continuano ad incitare e a congratularsi.

Per me è stata un’avventura ad alto impatto emotivo che rimarrà scolpita nella memoria e, spero insieme a queste righe, indelebile nel tempo.

Giù il cappello dinanzi a New York.

Pensiero debole scritto il 10/11/2019 in aereo sulla tratta NY-Roma, 7 giorni dopo avere (per)corso quei 42 km che vanno da Staten Island a Central Park. I ringraziamenti speciali vanno a chi ha condiviso con me questa eterna avventura.

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